Marcello Cozzi, prete impegnato da sempre nell’educazione alla legalità, nella lotta alle mafie e nell’accompagnamento ai collaboratori di giustizia ha scritto un altro libro che lascia senza fiato, intitolato “Dio ha le mani sporche”, con la prefazione di Agnese Moro. Le sue parole, frutto di decine di incontri fatti in carcere, in particolare con ex esponenti della criminalità organizzata, contengono e trasmettono un pensiero scomodo per il senso profondo che ha l’incontrare l’altro quando proviene dall’universo del male ed ha scelto di pentirsi, come si dice in gergo; anche se il termine pentito è controverso sia per molti collaboratori sia per capire la complessità dei loro percorsi. Il libro parla anche di colloqui con detenuti attualmente al 41 bis e con altri accusati dei reati più infamanti rispetto al codice carcerario; è un testo sul senso spirituale e psicologico che ha per chi opera nelle relazioni d’aiuto incontrare e riuscire a dare supporto a chi ha alle spalle un percorso criminale. La parte che mi ha maggiormente colpito, per ragioni professionali, è proprio quella in cui Don Cozzi si sofferma sul dialogo avviato da tempo con diversi collaboratori di giustizia; ne descrive il tormento, non nasconde il motivo della convenienza di una scelta che per molti rimane quello preponderante ma pone un tema, di cui personalmente sento tutta la gravità e l’urgenza evidenziata. Lo tradurrei, spero senza banalizzarlo troppo, in una questione che interroga tutti, che ne interseca altre come l’antica e irrisolta questione meridionale e la più attuale questione adolescenziale, che nutrono purtroppo più che mai le fila della criminalità, ed è una questione culturale. È una sfida che dovremmo raccogliere per affrontare pericoli che corriamo tutti; anche il più strumentale dei collaboratori di giustizia infatti, essendo tale perché le sue rivelazioni lo hanno definito giuridicamente così, ci chiede giustamente di non essere lasciato solo, neanche quando il programma di protezione sarà giunto al termine. Lo dobbiamo tutti a chi ha creduto e voluto istituire questo percorso normato per legge, se vogliamo confiscare uomini interi alle mafie e non solo pezzi di vite da usare seppure a fin di bene. La sua parte può farla ciascuno di noi, non solo chi ha l’onore e l’onere di guardare in faccia questi uomini e il loro tormento, lo possiamo fare e non ci sono parole migliori di quelle di Don Cozzi e di Agnese Moro per esprimere come. Le fondo insieme in un unico pensiero di speranza… “ Non è il cambiamento di una persona la condizione indispensabile per incontrarla, ma al contrario è l’incontro la condizione che genera poi un cambiamento… è nell’incontro con il viso dell’altro che inizia un percorso che restituisce umanità; che mette in contatto con la realtà del tempo intercorso e dei percorsi fatti; che permette di rimproverare costruendo ponti anziché muri e di spiegare le scelte sbagliate di un tempo senza accampare scuse…”.