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Sull’ansia, l’angoscia e il bisogno di sacro

Sull'ansia, l'angoscia

Una delle domande di cura a cui ad oggi mi capita di rispondere più di frequente è legata ai sintomi d’ansia e al loro alternarsi a periodi depressivi più o meno lunghi. I sintomi sono un coacervo di istanze interiori irrisolte, e sono la parte più “dicibile” con cui la maggior parte delle persone si presenta ad un* terapeuta quando pone una domanda di cura. Riuscire ad orientare la riflessione verso un sé intero, suscitando curiosità verso il proprio mondo interno e il desiderio di rappresentarsi appieno vuol dire aver iniziato sul serio un percorso di cura che altrimenti rimarrebbe solo l’illusione di una cancellazione sintomatologica. Succede poi che il sintomo non sia solo “roba brutta da far fuori e basta”, ma che sia invece un tema, magari posto male, ma che merita la massima attenzione e del terapeuta e del paziente (persona che si riconosce un pathos). E ancora succede in un tempo storico come quello che stiamo vivendo tutti noi da ormai più di due anni, che la narrazione collettiva si sia incistata in una infodemia che monopolizza tutti i discorsi: prima era il Covid, adesso è la guerra in Ucraina. Ed è difficile che si apra ad una riflessione autentica sulla vera questione: che livello di disagio deve toccare la nostra civiltà per convincersi a mettere al centro sul serio gli esseri umani? E mentre le religioni non sembrano più in grado di raccogliere, contenere la benchè minima istanza salvifica mi viene sempre più da pensare che quello stesso sforzo di chiamare con il suo vero nome il dolore che entra mascherato in sintomo in una stanza d’analisi, debba essere fatto anche in mezzo alla collettività. Perché c’è qualcosa che ci trascende, che riguarda la nostra natura più squisitamente umana, che ci spinge a rimanere umani, interamente umani; è il bisogno di sacro, ed è un concetto tremendamente laico. 

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