Negli ultimi mesi, a seguito della fase di chiusura a cui siamo stati tutti costretti, il dato sulla violenza familiare è drammaticamente aumentato e molte di queste violenze sono legate all’omotransfobia. Ciò che ci colpisce particolarmente è la giovane età delle vittime e la trasversalità socio-culturale in cui si consumano queste violenze: non ci sono solo le periferie degradate delle grandi città e degli hinterland, ma anche i quartieri della Milano bene, della Roma bene etc. Sono elementi questi che in prima battuta ci dicono innanzitutto quanto il sesso e le tematiche sessuali appartengano purtroppo ancora ad un’area che fatica a rappresentarsi pubblicamente. Viviamo in una società che connota sessualmente qualsiasi prodotto per essere venduto e non solo i prodotti…Eppure il sesso è qualcosa di cui non riusciamo a narrare pubblicamente, ancora meno quando riguarda i giovani, e ancora meno se possibile quando si tratta dei nostri familiari. Perché parlarne? Non certo per motivi voyeuristici ma proprio per l’esatto contrario: un tema che scompare dai radar della parola pubblica tornerà male, agito negli spazi privati, dove mancano le risorse per affrontarlo. E quando parliamo di risorse non ci riferiamo al reddito alto o ai titoli di studio, poiché come ricordavamo prima l’omotransfobia attecchisce anche ai piani alti. Il diritto a conquistare la propria identità di genere, e a vivere il proprio orientamento sessuale è un tema che entra spesso nelle stanze di cura, ma soprattutto si incontra nella sua drammaticità e realtà quando ci si occupa di relazioni d’aiuto sul campo. E’ obbiettivamente difficile intervenire perché ci si muove su un crinale molto delicato, dove la famiglia è più che mai chiamata in causa ancora una volta. Ed è molto difficile far passare un’idea semplice di amore sano per i propri figli, per i propri fratelli/sorelle etc., che non può attuarsi senza una giusta distanza, senza l’accettazione dell’altro/a come persona separata da sé. Invece molto spesso i familiari sono visti con la lente delle proprie proiezioni narcisistiche, le quali non hanno molto a che vedere con l’amore sano. Il tema è complesso ma anche insidioso, tocca molte corde in tutte le storie, per questo secondo noi lo si può approcciare solo “ muovendo da orizzonti di matrice fenomenologica”, come dice bene in un suo scritto Eugenio Borgna, “orientata a descrivere le esperienze vissute, cercando di evitare le tentazioni dei pregiudizi e considerandole nel limite del possibile nella loro significazione etica.
La psichiatria ha in ogni caso il dovere di rispettare le condizioni di vita tematizzate dal dolore e dall’angoscia, e queste fanno parte di quelli che possono essere chiamati disturbi di genere, e non malattie in senso clinico…non si limita oggi a descrivere e a curare quelle che sono chiamate, non saprei se nel rigore necessario, malattie mentali, ma tende anche a confrontarsi con le inquietudini dell’anima nella loro infinita problematicità”.