Se c’è una categoria clinica ormai completamente spogliata della sua valenza diagnostica è quella di narcisismo. Fra i non addetti ai lavori è infatti dilagante, va bene per descrivere ogni piccolo eccesso e, diciamoci la verità, chi non se la riconoscerebbe un po’ anche per sé?! In un tempo in cui siamo tutti continuamente in vetrina, privi di spazi simbolici collettivi proviamo a colmare questo grande vuoto di senso esibendo dettagli privati che una volta si tenevano orgogliosamente al riparo da sguardi indiscreti. E’ narcisista quest’epoca, che non ha memoria delle passate e che non ha immaginazione del futuro, che si compiace nell’illusione di un presente eterno o che ci si crogiola impotente. E noi che qualsiasi sia il nostro credo o la nostra visione del mondo veniamo tutti dall’incontro di due persone e non da un atto auto generativo, aderiamo passivamente a tutto questo, all’idea di un’autoreferenzialità assoluta. Essere narcisisti è socialmente riconosciuto come uno dei modi più diffusi e tutto sommato più giustificati di stare al mondo. Via dunque ogni remora e via la parola narcisista dal glossario psicopatologico? Non direi proprio; c’è una differenza profonda e strutturale fra coloro i quali uniscono le proprie sane istanze di affermazione con il riconoscimento di sé attraverso l’altro e coloro i quali vivono le prime sempre e solo in modo prevaricatorio rispetto al secondo. Ed è poi la stessa differenza che passa fra l’esibire un’emozione o condividerla, parlare per sentito dire o per esperienza, frequentare una persona o entrarci in relazione. Il livello di profondità con cui riusciamo a condividerci col prossimo è pari al livello di profondità con cui riusciamo a contattare noi stessi fino in fondo, e conseguentemente a rappresentarci. Narcisisti si quindi, ma sani.
