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Il Mito della Sicurezza il Coraggio dell’Incertezza

Il Coraggio dell'Incertezza

Sicuramente è davanti agli occhi di tutti che in questi ultimi anni stiamo vivendo la supremazia del tecnicismo, delle neuroscienze e della scienza in generale, non solo per una lecita e fisiologica evoluzione culturale e scientifica dell’uomo ma anche probabilmente in risposta a un bisogno di controllo che sa di insicurezza. E’ presente una spasmodica e ipertrofica urgenza di controllare oltre misura non solo il mondo che ci circonda ma anche quello che ci abita, tutte le sue paure e le più intime inquietudini; probabilmente l’uomo contemporaneo sta peccando di quella che i greci chiamavano HYBRIS (dal gr. ὕβρις insolenza, tracotanza). Non accettiamo il limite, il dubbio, l’incertezza, l’impaccio, lo smarrimento, non accettiamo l’insicurezza umana e la sua malinconia, perciò se è possibile cerchiamo di soffocarla o anestetizzarla con uno specifico farmaco o a volte semplicemente un hobby, che è tutto fuorchè artistica sublimazione ma è semplice distrazione o fuga, o meglio evasione da noi stessi; e tale fuga dal nucleo autentico dell’esistenza cioè dalla persona umana avviene anche nel mondo della cura dove tutto viene impacchettato e incasellato nella diagnosi, dove le stesse esperienze umane vengono mascherate da categorie iperpsicoanalitiche o psicopatologiche, riducendo tutto per la smania di controllo a una specifica sindrome o fobia. 

Secondo Frank Furedi, citato da Galimberti, la patologizzazione di esperienze umane risponde all’esigenza di omologare gli individui non solo nel loro modo di “pensare” ( a questo ha già provveduto Nietzsche, “chi pensa diversamente va spontaneamente in manicomio”), ma soprattutto nel loro modo di “sentire”. 

Anche nella quotidianità gli aspetti interiori e più intimi devono essere controllati, usati e abusati; la stessa sessualità, per fare un esempio non banale, nella società di oggi giorno non è accettata nelle sue fantastiche identità o vissuta in una legittima e giustificabilissima intimità e nel mistero dei propri pensieri, nell’evoluzione e nella crescita tra le proprie incertezze. La sua legittimità è data e sancita solo dal Coming Out, che spesso è solo una finta esternazione di libertà, o da un elenco di conquiste che sa di machismo o per essere più razionali da categorie scientifiche o di materia trovate dal sessuologo di turno. 

Non esiste più il dubbio o la “maestria” dell’insicurezza, non esiste più il pensiero silenzioso, quello che parla solo a te stesso, ma tutto dev’essere per forza dimostrato e spettacolarizzato, anche lo stesso pianto…. non c’è più mistero. 

Anche il disagio psichico è vittima di una ipocrita accettazione, è schiavo del mito della diagnosi da manuale, non c’è cura se non c’è un’espressione semantica e scientifica. 

Sarebbe importante invece riscoprire che la validità e l’attrazione di una cura o di una terapia gravitano intorno al nome stesso del paziente, alla persona, all’individuo unico e irripetibile e al suo unico e misterioso modo di vivere, al suo unico e incerto universo. 

Non è forse vero infatti che per essere felici bisogna cercare se stessi e il proprio demone nell’incertezza della vita? 

  

 

  

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