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Le diagnosi non sono una scusa per non-vivere

Freud

Mi capita sempre più di frequente nei vari contesti in cui lavoro (carcere, scuola, attività privata) di cogliere una sorta di leitmotiv che accomuna molte delle narrazioni che ascolto. Fra i pazienti, gli studenti e i detenuti sempre più persone ricorrono alla diagnosi psicopatologica per presentarsi, sia quando ad essa corrisponde una reale certificazione sia quando questa non c’è, però la si vorrebbe, la si reclama, ci si sente quasi in difetto a non averne una. E’ un fatto così frequente che mi ha spinto  a cercarne una ipotesi, perché mi sembra che questo modo di porsi e di presentarsi al mondo abbia preso una piega preoccupante, mai vista prima. Parallelamente a questo osservo una sempre più marcata difficoltà nelle persone a mentalizzare, ad aprire spazi di pensiero su di sé e sul proprio mondo interno. E’ come se ci fosse una deriva psichica che nella discussione collettiva si manifesta non problematizzando mai, bensì individuando una diagnosi sociale (il covid, la guerra) che di volta in volta diventa un tappo per non scoperchiare mai la fenomenologia reale dei problemi. Ovviamente anche le diagnosi sono reali; il covid c’è stato e c’è, la guerra c’è, ma non sono una scusa per non-vivere. Così essere bipolare non può essere la patente per maltrattare le donne che si incontrano nel proprio cammino, essere borderline non può essere la giustificazione per non assumere una qualche forma di tolleranza all’impegno scolastico, avere un disturbo narcisistico di personalità non autorizza a procrastinare sine die l’ingresso nell’età adulta. Un bravo psicoanalista che ho conosciuto tanti anni fa la spiegava bene così a un suo paziente e la raccontava così a noi terapeut* in formazione “guardi che anche se mi paga io continuo a pensare liberamente”. Non ci ha mai raccontato se dopo quella restituzione il suo paziente sia rimasto in terapia, io però faccio parte di quella riserva indiana di terapeut* che continuano a pensare liberamente! 

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